Counseling e Fibromialgia

Da anni ormai si sente parlare della figura del counselor, ma in pochi sanno realmente che cosa significhi di preciso questo termine anglosassone che definisce un’attività dapprima molto rara nella nostra penisola ma che, ad oggi, conta migliaia di professionisti. 


Padre del concetto stesso di counseling è innanzitutto
Carl Rogers, psicoterapeuta statunitense a cui dobbiamo la scoperta di questo metodo innovativo per relazionarsi all’altro, fondato sui principi fondamentali di accettazione positiva incondizionata e comprensione empatica, oltre all’autenticità che deve contraddistinguere il counselor come figura spontanea e trasparente all’interno della relazione. 


Più nello specifico, il counseling è quindi uno spazio d’ascolto completamente privo di giudizio nel quale la persona può sentirsi libera di esprimere se stessa e le proprie emozioni in maniera genuina, mentre il counselor ha il compito di facilitare in maniera non direttiva il processo di consapevolezza delle risorse insite nella persona stessa, in modo da aiutarla a superare con le proprie forze i momenti di difficoltà. 

Rogers, infatti, riconosce in ciascun individuo una tendenza attualizzante, ovvero la capacità di orientarsi verso l’autorealizzazione e il miglioramento della qualità della vita attraverso le proprie potenzialità, che sono sempre presenti ma talvolta risultano difficili da individuare. 


Con la nascita di questo metodo, però, non sono mancate le polemiche che mettono a confronto il counseling con la psicoterapia; questo perché spesso capita che chi non ne conosce la differenza sostanziale tenda a pensare che siano due tecniche concorrenti, mentre invece si tratta di percorsi totalmente diversi che in alcuni casi possono essere complementari, ma che per nessuna ragione possono essere accomunati. 


Tale differenza, appunto, sta proprio nell’area di competenza: se con la psicoterapia si va a lavorare sulla struttura della personalità a partire da un’analisi sul vissuto relazionale e si vanno ad indagare in maniera approfondita tutte le fasi esperienziali ed eventuali traumi ad esse legati, utilizzando numerosi metodi d’analisi che richiedono conoscenze specifiche, con il counseling invece si lavora unicamente sul presente, su ciò che viene chiamato
“qui ed ora”, con l’intento di affrontare nell’immediato problematiche concrete che riguardano la vita della persona e che possono essere gestite rimanendo in una dimensione non terapeutica ma facilitante. 

Ecco perché, sempre più spesso si sente parlare di collaborazioni attive tra counselor ed altre figure professionali come psicoterapeuti, psichiatri e medici, con le quali è possibile (anzi, doveroso) cooperare o inviare l’interessato, nel momento in cui risulta necessario. 


Ciò premesso, arriviamo a parlare di un metodo ancora più innovativo di fare counseling che affianca alle tecniche tradizionali l’utilizzo di uno strumento tanto affascinante quanto potente:
il teatro

Dopo anni di studio come attrice, autrice e regista, ho infatti scoperto le potenzialità di questo mezzo, sperimentandolo in maniera diretta e ritenendo che fosse un modo incredibilmente efficace di conoscere sé stessi attraverso tutti quei meccanismi che inevitabilmente si innescano nel momento in cui si lavora sull’ascolto, sulla consapevolezza del proprio corpo e dello spazio circostante, sulla collaborazione all’interno di un gruppo e sull’interpretazione dei più svariati personaggi che spesso risultano avere qualcosa in comune con chi ne veste i panni, regalando l’opportunità di vedere da una nuova prospettiva cose che ci riguardano intimamente. 

Da qui la volontà di frequentare una scuola professionale che mi permettesse di sviluppare le giuste competenze per poter portare il teatro all’interno della relazione d’aiuto e l’incontro fortuito con la responsabile della scuola di formazione, Marisa Miritello, ideatrice del metodo TeatroCounseling®, counselor somatorelazionale a indirizzo bioenergetico, psicodrammatista, e attrice.


Grazie a questo percorso triennale, ho finalmente avuto l’opportunità di conoscere nel dettaglio il teatro non solo come la meravigliosa forma di intrattenimento culturale che tutti conoscono ma anche come vero e proprio strumento di
relazione e introspezione, arrivando quindi a formulare progetti di tirocinio in differenti ambiti, tra cui quello dei pazienti affetti da Sindrome Fibromialgica


L’idea nasce proprio dalla diagnosi della mia malattia arrivata un anno fa grazie all’incontro con il Prof. Sarzi Puttini, dopo lunghe ed estenuanti ricerche di spiegazione a ciò che il corpo tentava di esprimere quotidianamente in maniera talvolta violenta e inaspettata e che non lasciava trasparire alcuna causa apparentemente riconoscibile. 

La frustrazione che ha accompagnato sia il periodo di smarrimento iniziale sia la diagnosi definitiva, mi ha portato a pensare che ci fosse un grande bisogno di condivisione, che permettesse a noi pazienti di prendere coscienza del nostro stato emotivo, così come la necessità di mettersi in contatto con il proprio corpo, anche quando tale rapporto sembra essere fra i più ostici, per cercare il più possibile di ascoltarne le esigenze e di trovare un equilibrio che ci permetta di convivere con tali segnali. 


Il progetto di tirocinio ha avuto come obiettivo quello di studiare come il counseling a mediazione teatrale permetta di entrare in contatto con questa dimensione di accettazione e condivisione di uno stato delicato come quello della sintomatologia fibromialgica, sia lavorando in gruppo che individualmente, utilizzando non solo il colloquio rogersiano ma anche il teatro come forma espressiva, integrando altresì tecniche complementari quali la
bioenergetica, ovvero una sequenza armonica di movimenti semplici, accompagnati dalla respirazione, che favoriscono il benessere e il rilassamento dei partecipanti.


Oltre al riscaldamento corporeo, in una sessione di gruppo di counseling a mediazione teatrale si eseguono quindi esercizi espressivi mirati, volti ad affrontare una tematica diversa per ogni sessione, come per esempio la
rabbia, lo stress, l’autodeterminazione, le dinamiche di coppia o familiari e tanti altri possibili spunti che possono essere declinati in un’atmosfera di condivisione protetta e guidata dal conduttore.


Ogni incontro viene strutturato affinché ci sia sempre una contestualizzazione che funge da fil rouge tra le varie fasi del laboratorio, permettendo ad ogni partecipante di lavorare su di sé, sia mettendo in gioco il proprio vissuto, sia confrontandosi con le esperienze degli altri. 


Inoltre, dopo i primi passaggi dedicati all’approfondimento del tema e allo sviluppo creativo, è possibile utilizzare la tecnica della
drammatizzazione per andare a sviscerare situazioni metaforiche o concrete, che riguardano uno dei membri del gruppo scelto come protagonista, al quale si permette di vivere una scena di vita reale o di fantasia, interpretandone i diversi frammenti. 

Questo significa che il protagonista, dopo aver indagato in prima persona ciascun elemento presente nella scena secondo il principio dell’inversione di ruolo, avrà l’opportunità di assistere alla dinamica di episodi che lo riguardano, grazie a un’adeguata conduzione del counselor e al contributo dei compagni, che collaboreranno attivamente alla costruzione finale della scena che lui avrà modo di osservare da un punto di vista esterno.


Tale tecnica ha origine dal concetto di psicodramma, ideato da
Jacob Levi Moreno, ovvero un tipo di psicoterapia di gruppo generalmente praticata all’interno di un setting specifico, nel quale l’interessato è chiamato ad interpretare un’azione scenica che riguarda il proprio vissuto, in collaborazione con gli altri partecipanti, in modo da far emergere i conflitti inconsci ad esso legati. 

Moreno sosteneva infatti che l’interpretazione favorisse l’esperienza catartica necessaria a compiere questo processo e, nel corso degli anni, questa efficace intuizione è stata adottata e rielaborata da numerose altre scuole terapeutiche, dando i natali ad altre tecniche altrettanto interessanti quali la Drammaterapia e il Playback Theatre.


Alla luce di questi studi, avendo sperimentato in prima persona un beneficio legato all’
arteterapia e più nello specifico al teatro, un aspetto importante che mi sono trovata a considerare rispetto all’utilità che tutti questi metodi possono avere per i pazienti fibromialgici è proprio la possibilità di interiorizzare alcune esperienze difficili, che finiscono per impattare in maniera decisiva sulla qualità della vita della persona e di conseguenza sull’acutizzazione dei sintomi che, come ormai sappiamo, tendono a peggiorare quando chi ne soffre sta attraversando momenti di particolare stress emotivo.


Nel ringraziare AISF per questa opportunità di avviare il progetto e tutti i soci che hanno aderito, non posso che sperare in un futuro in cui questa patologia sia sempre più riconosciuta e, di conseguenza, siano regolamentati i diritti di chi ne è affetto. 

Nel frattempo, l’augurio a tutti coloro che come me convivono con la fibromialgia, è quello di avvicinarsi il più possibile al concetto di mutuo sostegno, liberandosi definitivamente dalla paura del giudizio e cercando nelle giuste figure professionali un canale di espressione che permetta di dare voce alle proprie emozioni, di qualunque natura esse siano.   


Di Giulia Gennaro,
Da “AISF La Rivista Italiana” – Numero 02 – Anno 6 – Settembre 202



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